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La differenza tra la difesa del “gioco lecito” e la tutela delle “aziende che operano” nel settore
9/8/2014 - Fonte: Jamma
Molti – scrive l’avv. Silvia Taraddei, direttore generale AS.TRO – si ostinano a non capire che tutelare le aziende di un comparto non significa automaticamente difendere ad oltranza (e a prescindere) solo il “contingente” core business di cui si occupano le imprese addette. Nel caso del gioco lecito, poi, tale verità è oltremodo conclamata dalla genesi “del gioco lecito”, che non deriva dall’inventiva o dalla indispensabilità intrinseca del servizio, ma da una scelta politica e Parlamentare. La difesa del gioco lecito, quindi, spetta a chi lo ha creato, mentre alle rappresentanze di settore spetta il compito di “far notare” che, in virtù delle determinazioni legislative assunte, è nata una industria che occupa, tra tutti i segmenti merceologici, 200 mila addetti, e che ha riversato centinaia di milioni di euro in investimenti per realizzare la rete distributiva dei prodotti di “monopolio statale”, garantendo allo Stato il soddisfacimento della mission che era stata demandata al “sistema” (recuperare il gioco da fenomeno sommerso a economia legale e controllata). Rappresentare e patrocinare l’industria del gioco lecito, quindi, significa tutelare la distinzione tra gioco legale e gioco che tale non è, nonché difendere le legittime aspettative economiche che sono sorte a seguito dei provvedimenti emanati sul gioco lecito, e per il perseguimento delle quali si sono messi in campo i necessari investimenti. Per quale ragione, in un momento così delicato per il settore, si ritiene così importante illustrare una differenza che potrebbe addirittura sembrare una “presa di distanza” dal proprio “oggetto di lavoro”. I motivi sono politici, da un lato, ma soprattutto industriali dall’altro. “Questo sistema” , in fondo, non piace a nessuno, vuoi perché a bassa marginalità operativa, vuoi perché vissuto come “demone” da molti attori della vita intellettuale del Paese, ma soprattutto perché non ispira più tanta fiducia negli operatori economici, laddove abbia rivelato una sua bassissima attitudine a dotarsi di quel celere, efficiente, costantemente aggiornato, perimetro di regole, che serve al “gioco” per essere al passo sia con le “esigenze istituzionali”, sia con le “esigenze imprenditoriali”. Ciò che maggiormente “colpisce”, poi, è che ciò che al “gioco lecito” si chiede (tutelare i minori, contribuire alla prevenzione delle patologie di gioco eccessivo, non essere ovunque con presenza invasiva e indecorosa, ecc. ecc.) sono “strumenti” che proprio all’industria avrebbero fatto comodo “sin dall’inizio. Nel dettaglio: - Non sarebbe stato meglio avere un “decreto Balduzzi” già nel 2004, per responsabilizzare punti vendita e utenza, ed evitare forme “sgradevoli” di pubblicità dannosa per l’immagine del settore? - Non sarebbe stato meglio avere “un giusto contingentamento” sottoscritto dagli Enti locali per pianificare “sin dal 2004″ la massima espansione ragionevole del sistema? - Non sarebbe stato meglio “da subito” spiegare alla popolazione che in “Italia” il gioco d’azzardo è stato vietato per secoli, che per secoli si è tranquillamente sviluppato in barba alle Leggi perché la domanda di tale “servizio” è connaturata alla natura umana, e che per impedire che “persino” il gioco andasse ad alimentare l’economia sommersa si è deciso di “statalizzarlo” a fronte di “tutele” per la collettività? - Non sarebbe stato meglio, da subito, stabilire la devoluzione di scopo dei proventi erariali sul gioco ai servizi locali, proprio per evitare che lo Stato assumesse il ruolo di “banco”, oltre che di controllore ? Oramai è giunto il momento di chiarire che “difendere il gioco lecito”, non significa auspicare la difesa di “questo sistema”, ma significa considerare valida l’opzione non-abolizionista adottata per combattere una economia sommersa che già nel 2002 era “accreditata” di 20 miliardi di volume d’affari all’anno. Se è chiaro, quindi, che all’industria del gioco lecito interessa solo l’esistenza di un “sistema”, il più efficiente e razionale possibile, nonché il “più idoneo possibile” a non creare problematiche presso “l’utenza”, è altresì chiaro che “il muro contro muro” tra abolizionisti e anti-abolizionisti è solo funzionale al mantenimento dello status quo, non essendo pensabile “cancellare” dal bilancio pubblico i proventi del gioco pubblico, e contemporaneamente perseverare nell’attuale realtà di frizioni locali che stanno facendo implodere le imprese a “suon” di distanziometri. La legge delega fiscale può cambiare il sistema, ed è giusto pretendere che lo faccia secondo gli indirizzi parlamentari approvati. Tuttavia un nodo “politico” e “Intellettuale” va sciolto: regolamentare, razionalizzare, controllare non può significare cancellazione o decimazione degli asset aziendali insediati, con la pretesa che “un po’” di gioco lecito “qua e là” possa competere con l’ambizione fisco-istizionale di relegare il gioco irregolare e non tassato a opzione marginale per l’utenza.